La realtà economica e sociale del Paese è molto preoccupante.
Il Pil cresce dello “zero virgola” (secondo le ultime stime dell’Istat è aumentato – nel 2024 – della metà rispetto a quanto previsto nel Piano strutturale di bilancio, e di 0,4 punti percentuali in meno nel 2025); la produzione industriale cala da 22 mesi consecutivi; la domanda interna ristagna mentre l’export è in contrazione; precarietà, lavoro nero e sommerso colpiscono 6 milioni di lavoratori; l’evasione fiscale e contributiva è a quota 82,4 miliardi; lavoratori e pensionati hanno pagato, nel 2024, oltre 17 miliardi di Irpef in più; l’inflazione cumulata nel quadriennio 2021 – 2024 è stata del 18,6%.
La Legge di Bilancio si inserisce in questo quadro, e non in quello decantato dal Governo, che continua a celebrare record immaginari che prescindono totalmente dalle condizioni materiali di vita e di lavoro delle persone.
E non contiene un solo provvedimento in grado di invertire il declino economico in corso. Lo conferma lo stesso Esecutivo, che certifica – per i prossimi anni – un impatto sul Pil della sua politica economica tra 0,3 e 0,0 punti percentuali. Il che equivale ad ammettere di non essere in grado di incidere su quella realtà che abbiamo appena descritto.
Anzi, le scelte compiute peggioreranno ulteriormente le cose.
E ci riferiamo, innanzitutto, alla vera e propria fiera di tagli al welfare universalistico e ai servizi pubblici che si è scelto di portare avanti per rispettare i parametri del nuovo Patto di Stabilità, cui anche il Governo italiano ha dato via libera nel Consiglio europeo, che condannerà il nostro Paese a 7 anni di austerità.
Eppure, contrariamente a quanto sostengono il Mef e Palazzo Chigi, che fanno passare per scelte tecniche decisioni assolutamente politiche, c’era un’alternativa a ridurre ulteriormente i dipendenti pubblici, a tagliare ancora una volta le risorse per Istruzione, Ricerca, Regioni ed Enti locali, a programmare una riduzione delle risorse per il Servizio sanitario nazionale tale da raggiungere – nel 2027 – il livello più basso mai registrato in rapporto al Pil, pari al 5,91%.
E l’alternativa era ed è recuperare risorse da extraprofitti e profitti (decine e decine di miliardi di euro), rendite e grandi patrimoni, evasione fiscale e contributiva.
Si è invece deciso di non andare a prendere i soldi dove sono, preferendo fare addirittura il contrario, riducendo la progressività fiscale, all’insegna del solito mantra del “meno tasse per tutti”.
Per tutti, tranne che per chi vive di salario o di pensione, che – pagando, attraverso il meccanismo del drenaggio fiscale, il maggior gettito Irpef cui abbiamo già fatto cenno – ha finanziato anche il taglio del cuneo, in una sorta di “grande partita di giro” a saldo zero.
Su questo punto occorre fare una precisazione. Siamo al terzo anno di fila in cui si tenta di vendere come nuovo sostegno ai lavoratori ciò che nuovo non è affatto, è semplicemente la conferma della vecchia decontribuzione, che è stata fiscalizzata. La stragrande maggioranza del mondo del lavoro, con un reddito fino a 35.000 euro annui, non vedrà un solo euro in più in busta paga, anzi la maggior parte ci perderà.
La fascia più colpita è quella tra 8.500 euro e 9.000 euro, che perderà addirittura 1.200 euro all’anno. Stiamo parlando di quasi 2 mesi di salario in meno per lavoratori e, soprattutto, lavoratrici già poveri e precari.
Non è certamente in questo modo che si risolverà una questione salariale che, in Italia, è ormai grande come una casa.
E che non ci sia alcuna intenzione di affrontarla lo conferma lo stanziamento, per i rinnovi contrattuali del pubblico impiego 2022/2024, di risorse sufficienti a coprire appena 1/3 di quanto perso con l’inflazione, dando così un pessimo segnale anche ai settori privati.
A tutto questo va aggiunto il capitolo previdenziale. È scomparso dall’orizzonte qualunque tentativo, non tanto di superare ma perfino di mitigare la Legge Monti/Fornero. Dopo le ulteriori restrizioni per Opzione Donna, Ape sociale e Quota 103, un minimo di flessibilità in uscita sarà garantito ad appena lo 0,011% dei lavoratori, per tutti gli altri torna pienamente in vigore la legge che in campagna elettorale si era solennemente promesso di abolire. L’obiettivo è stato completamente ribaltato, puntando ad allungare – per ora in via volontaria – la permanenza al lavoro sino a 70 anni e oltre.
Se infine consideriamo i pesanti ritardi nell’attuazione del PNRR e l’assenza di qualunque strategia per il Mezzogiorno (confermata dall’ennesimo saccheggio delle risorse per lo sviluppo e la coesione, 3,88 miliardi, per finanziare il Ponte sullo Stretto, che si aggiungono alle altre ingentissime risorse sottratte al Sud), troviamo piena spiegazione della crescita anemica in corso.
Un problema strutturale che si risolve con investimenti pubblici e politiche industriali in grado di affrontare la transizione digitale, ambientale ed energetica. E non certo con provvedimenti come l’Ires premiale, che – oltretutto – riguarderà le poche imprese non in difficoltà. Evidentemente, dopo i ben 77,3 miliardi di incentivi e benefici fiscali destinati al sistema imprenditoriale nei primi 11 mesi del 2024 (il 90% delle spese in conto capitale dello Stato) non si è ancora compreso che proseguire su questa strada non determina alcun ritorno in termini di investimenti e occupazione di qualità. Il sistema delle imprese andrebbe piuttosto indotto a utilizzare gli enormi profitti ed extraprofitti realizzati in questi anni per aumentare gli investimenti e rinnovare i contratti.
Questione su cui il Governo, fedele al principio del “non disturbare chi vuole fare”, si guarda bene dall’intervenire.
C’è un unico settore che – non solo non subisce alcuna austerità – ma che vede un incremento delle risorse senza precedenti: è la spesa in armamenti, con circa 35 miliardi di euro da qui al 2039, tra il ministero della Difesa e il MIMIT.
Una scelta che ci vede assolutamente contrari, perché preannuncia la conversione della nostra economia in un’economia di guerra, che non può portare nulla di buono.
Proseguendo su questa strada, continuando a rinunciare – contro ogni evidenza – a una vera strategia di politiche industriali per difendere e rilanciare occupazione e capacità produttiva, le conseguenze sono facilmente prevedibili.
Si moltiplicheranno le crisi aziendali e i livelli occupazionali – sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo – ne risentiranno in maniera significativa.
Le nuove generazioni, che soffrono sulla loro pelle una precarietà sul lavoro che il Governo aggrava anziché risolvere, continueranno a lasciare il nostro Paese per cercare opportunità di realizzazione all’estero.
Lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, che hanno sopportato un brutale impoverimento causato da un’alta inflazione cumulata – determinata dalla crescita dei profitti - cui non è stato posto alcun rimedio, subiranno anche gli effetti dell’indebolimento di un welfare sempre meno pubblico e meno universalistico.
I soli a guadagnarci saranno: chi sta accumulando profitti, grandi patrimoni e rendite; chi opera nel settore militare e gli evasori, per i quali – dalla flat tax ai condoni e ai concordati preventivi - viene escogitato ogni strumento possibile e immaginabile per consentirgli di non pagare il dovuto al fisco.
Con scarso successo, peraltro, visto che perfino il concordato preventivo, nonostante la riapertura dei termini, ha portato nelle casse dello Stato cifre di gran lunga inferiori alle attese.
La ragione per cui questo accade è piuttosto semplice: hanno aderito solo quanti hanno assoluta certezza che nel prossimo biennio incasseranno cifre molto superiori a quelle su cui dovranno pagare la bassissima imposta prevista da questa misura. Tutti gli altri preferiscono aspettare, avendo la matematica certezza che nuove sanatorie puntualmente arriveranno e che, nel frattempo, nessuno effettuerà controlli. In questo modo si incassa oggi molto meno di quanto si incasserebbe domani, e intanto si taglia la spesa pubblica e, in particolare, quella sociale.
A pagare il conto, sarà – ancora una volta - chi vive di reddito fisso, che dovrà garantirsi con i propri soldi i servizi che verranno meno.
In spesa sanitaria privata i cittadini hanno pagato, nel 2023, 46 miliardi di euro. Chi può permetterselo, chi non ne ha la possibilità rinuncia addirittura a curarsi.
Tutto questo lo abbiamo denunciato con lo sciopero generale dello scorso 29 novembre. E non abbiamo alcuna intenzione di fermarci.
Continueremo a batterci per ottenere risposte per le persone che rappresentiamo e per cambiare le politiche inique e fallimentari dell’Esecutivo. E lo faremo a partire dall’appuntamento referendario della prossima primavera. Chiederemo 5 Sì per porre fine alla precarietà, allo sfruttamento e all’insicurezza sul lavoro e per dotarci finalmente di una legge civile sulla cittadinanza. Una battaglia di cambiamento del modello di sviluppo e di società, per mettere al centro il lavoro, i diritti e la libertà delle persone.
Abbiamo la possibilità concreta di rendere l’Italia più libera, più giusta e più prospera. Non lasciamocela scappare.
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