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L’allarme della Cgil di Padova: “Troppa precarietà: pensione a rischio per 200 mila padovani”

Titolo in prima pagina e approfondimento all’interno del mattino di Padova su quello che è un enorme problema che politica e istituzioni continuano a fingere di non vedere: l’altissimo numero di precari – donne, giovani, part-time involontari, lavoratori discontinui o con contratto a determinato – che in Provincia di Padova sono arrivati ad essere 200 mila e che, ad oggi, hanno zero prospettive di ricevere in futuro una pensione dignitosa in grado di permettergli di vivere.

“La tensione sociale è dietro l’angolo – spiega il Segretario Generale della Cgil di Padova, Aldo Marturano – e rischiamo che da qui a 10-20 anni le pensioni saranno poverissime tanto da non consentire la sopravvivenza. Se non pensiamo oggi a rimediare non avremo più tempo. Basti pensare che nel 1974 c’erano 32 aliquote e un sistema di contribuzione progressivo: più uno guadagnava, più versava contributi. Oggi, invece, le aliquote sono appena 4 e il governo Meloni vuole arrivare ad una sola aliquota fissa al 15%, ma non regge perché il 15% pagato da un operaio non sarà mai il 15% pagato da un imprenditore. Serve una riforma strutturale, altrimenti chi oggi ha stipendi da 2 mila euro finirà per essere un pensionato povero con il 50% dello stipensio”.

“Questo vale ancora di più per le donne – aggiunge la Segretaria Confederale Marianna Cestaro – perché ad oggi sevono 52 settimane, ossia un anno di contributi con il 40% dell’assegno sociale equivalente a circa 227 euro a settimana (cifra che però cambia di anno in anno), per andare in pensione. Significa che per poterci arrivare una donna deve poter contare su un reddito di almeno 11.813 euro e la verità è che tra precariato e part-time involontario sono pochissime quelle che ce la faranno, praticamente quasi nessuna. Il rischio di arrivare a 70 anni senza aver accumulato sufficienti contributi è più che reale per almeno una donna su due ma in generale il pericolo è di avere una pletora di disperati che non avranno di che vivere”.

“La madre di tutte le discriminazione – prosegue Marianna Cestaro – è data dalla maternità. Abbiamo una buona norma per la maternità, almeno per le dipendenti, ma rispetto ai congedi parentali nessun padre li sceglie perché significa ‘rimetterci’ il 30% dello stipendio e a quel punto è più conveniente che rimetta la madre che ha già lo stipendio più basso in famiglia. Finché non cambia la prospettiva per cui un’assenza dei genitori a lavoro non è un peso, non andremo da nessuna parte. Gli stipendi delle donne sono accessori e questo determina grandi disparità, ad esempio in caso di violenza domestica perché la donna non è autonoma. Quando si dice che la famiglia è l’ammortizzatore sociale della nostra società, in realtò si sta dicendo che la donna si occupa dei figli, si fa carico di un anziano, cura un disabile”.

“Discriminazioni che prendono di mira anche tanti giovani – conclude il Segretario Confederale Marco Galtarossa – visto che il 35% degli under 35 ha un contratto precario. Il 38% di lavoro lavora in ristoranti e alberghi e solo il 15% nella pubblica amministrazione. Anche gli autonomi non sono messi bene: il 35% dichiara un reddito inferiore ai 10.900 euro l’anno. Sono cifre che ci fanno capire che è ora di smetterla con la favoletta dei giovani che non hanno voglia di lavorare. La verità è che non sono più disposti ad accettare qualsiasi condizione. E questo perché hanno ben chiaro che rispetto alle generazioni precedenti loro sono messi molto peggio. Le conseguenze sono fin troppo amare: un giovane che rifiuta un lavoro povero sa che così la stabilità tarderà ad arrivare e con essa la possibilità di esaudire l’eventuale desiderio di mettere su famiglia. Prospettiva che continuerà a rimandare con buona pace di chi si preoccupa della denatalità in questo Paese”.

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